Documento originale: http://www.red-bean.com/kfogel/writings/copyright.html
L'articolo e' una rielaborazione del capitolo Piracy,
a little intellectual property history del libro "Information
Feudalism"
Traduzione di Comedonchisciotte.net
La storia del copyright ci spiega come esso sia nato per proteggere
un modello di business e non gli interessi degli artisti. E sia stato originato
dalla censura.
C’è un gruppo di persone che non sono sorprese dalla recente
decisione dell’industria discografica di andare in giudizio contro utilizzatori
scelti a caso del file sharing: gli storici del copyright. Essi già sanno
ciò che tutti gli altri stanno scoprendo lentamente: che il copyright
non ha mai riguardato il pagamento degli artisti per il loro lavoro; il copyright,
più che essere pensato per aiutare gli inventori, è stato pensato
da e per i distributori – cioè quelli che pubblicano,
che oggi comprendono le aziende discografiche. Ma ora che Internet ci ha dato
un mondo senza costi di distribuzione, non ha più senso restringere la
condivisione delle opere per pagare una distribuzione centralizzata. Non solo
è possibile abbandonare il copyright, ma anche desiderabile. Gli artisti
e gli utenti ne avrebbero beneficio sia dal punto di vista finanziario che artistico.
Invece di coloro che aprono le porte delle aziende e determinano cosa può
essere distribuito e cosa no, un meccanismo di selezione più raffinato
consentirebbe alle opere di diffondersi solo in base al loro merito. Vedremmo
un ritorno alla vecchia e ricca cosmologia della creatività, in cui la
libera copia e il prestito delle opere è semplicemente una parte normale
del processo creativo, un modo per riconoscere le proprie sorgenti e migliorare
in base a ciò che è stato fatto in passato. E la vecchia bufala
che gli artisti hanno bisogno del copyright per guadagnarsi da vivere si rivelerebbe
per la pretesa che è sempre stata.
Naturalmente niente di tutto ciò succederà se l’industria
continuerà il suo corso. L’industria editoriale ha lavorato duramente
per tre secoli, per oscurare le vere origini del copyright e per sostenere il
mito che esso è stato inventato da scrittori ed artisti. Ancora oggi
essa continua la campagna per leggi contro la condivisione più dure,
per trattati internazionali che obblighino gli stati ad adeguarsi alle più
strette regolamentazioni sul copyright e soprattutto per assicurarsi che il
pubblico non chieda mai chi, precisamente, questo sistema vuole favorire.
Il premio a questi sforzi si vede nelle reazioni del pubblico alle condanne
per lo scambio di file. Anche se molti concordano che stavolta l’industria
si è spinta troppo in là, l’errore viene trattato principalmente
come un errore di gradazione – come se le industrie discografiche avessero
buone ragioni ma, nel sostenerle, fossero semplicemente ricorse ad un eccesso
di forza.
Leggere la vera storia del copyright equivale a capire come questa reazione
giochi completamente a favore dell’industria. Le aziende discografiche
in realtà non si preoccupano se vinceranno o perderanno i processi. A
lungo termine, nemmeno si aspettano di eliminare il file sharing. Ciò
per cui esse combattono è molto più grande. Combattono per mantenere
uno stato mentale, un’attitudine verso il lavoro creativo,
la quale dice che qualcuno deve possedere i prodotti della mente e controllare
chi può copiarli.
E l’industria ha avuto un successo sorprendente posizionando il tutto come una contesa tra gli Artisti Assediati, che si suppone abbiano bisogno del copyright per pagare l’affitto, e le Masse Irragionevoli, che vorrebbero copiare una storia o una canzone da Internet invece che pagare un prezzo adeguato.
Essi sono riusciti a sostituire i termini caricati “pirateria” e “furto” al più preciso “copia” – come se non ci fosse differenza tra rubare la tua bicicletta (adesso tu non hai più la bicicletta) e copiare la tua canzone (adesso tutti e due abbiamo la canzone). Fatto ancora più importante, la propaganda dell’industria ha fatto diventare una credenza comunemente accettata l’idea che il copyright sia il modo in cui la maggior parte dei creatori guadagnano da vivere – che senza copyright i motori della produzione intellettuale si fermerebbero e gli artisti non avrebbero né i mezzi né le motivazioni per produrre nuove opere.
Una visione ravvicinata della storia mostra inoltre che il copyright non è mai stato un fattore importante per consentire la fioritura della creatività.
Il copyright è un sottoprodotto della privatizzazione della
censura governativa nell’Inghilterra del sedicesimo secolo. Non
ci fu alcuna sollevazione di autori che improvvisamente chiedevano il diritto
di impedire agli altri di copiare i loro lavori; gli autori, ben lontani dal
vedere la copia come furto, generalmente la vedevano come adulazione. La maggior
parte del lavoro creativo è sempre dipeso, allora e oggi, da una diversità
di fonti di finanziamento: commissioni, lavori d’insegnamento, concessioni
o stipendi, patrocinio, etc. L’introduzione del copyright non cambiò
questa situazione. Ciò che esso fece fu consentire un particolare modello
di business – la stampa di massa con distribuzione centralizzata –
per rendere disponibili poche opere fortunate ad un’udienza più
ampia, con considerevole profitto dei distributori.
L’arrivo di Internet, con la sua distribuzione istantanea a costo zero,
ha reso obsoleto quel modello di business – non soltanto obsoleto, ma
un ostacolo a quei grandi benefici che si dichiarava che il copyright dovesse
portare in primo luogo alla società. La proibizione al popolo di condividere
liberamente informazioni non serve a nessun altro interesse che a quello degli
editori. Anche se le industrie vorrebbero farci credere che la proibizione della
condivisione è qualcosa che ha a che vedere con il consentire agli artisti
di guadagnarsi da vivere, la loro affermazione non regge nemmeno ad un esame
superficiale. Per la grande maggioranza degli artisti il copyright non porta
alcun beneficio economico. Vero, ci sono poche star – alcuni dei quali
con grande talento – le cui opere sono appoggiate dall’industria;
essi ricevono la parte del leone dell’investimento in distribuzione e
in modo analogo generano il profitto più grande, che viene condiviso
con l’artista in termini migliori dell’usuale, perché la
posizione contrattuale dell’artista è più forte. In modo
per niente incidentale, queste star sono quelli che l’industria sostiene
come esempi dei benefici del copyright.
Ma trattare questi piccoli gruppi come rappresentativi vorrebbe dire confondere
il marketing con la realtà. La vita della maggior parte degli artisti
non appare per niente simile alla loro e mai lo sarà, nell’attuale
sistema basato sul profitto. Ecco perché lo stereotipo dell’artista
impoverito rimane vivo e vegeto dopo trecento anni.
La campagna dell’industria editoriale per mantenere il copyright è
intrisa di puro interesse personale, ma ci forza ad una scelta chiara. Possiamo
guardare a come gran parte della nostra eredità culturale viene contenuta
in una macchina per vendere e rivenduta a noi dollaro per dollaro – oppure
possiamo riesaminare il mito del copyright e trovare un’alternativa.
La prima legge sul copyright fu una legge di censura. Essa
non aveva niente a che fare con la protezione dei diritti degli autori, o con
il loro incoraggiamento a produrre nuove opere. Nell’Inghilterra
del sedicesimo secolo i diritti degli autori non correvano alcun rischio ed
il recente arrivo della macchina per stampare (la prima macchina per copiare
del mondo) era qualcosa che stimolava gli scrittori. Così stimolante,
infatti, che il governo inglese cominciò a preoccuparsi per le troppe
opere che venivano prodotte, non troppo poche. La nuova tecnologia, per la prima
volta, stava rendendo ampiamente disponibili letture sediziose ed il governo
aveva bisogno urgente di controllare il fiume di materiale stampato, essendo
allora la censura una funzione amministrativa legittima come la costruzione
di strade.
Il metodo scelto dal governo fu di stabilire una corporazione privata
di censori, la London Company of Stationers (Corporazione dei Librai di Londra),
i cui profitti sarebbero dipesi da quanto bene essi avrebbero realizzato il
proprio lavoro. Agli Stationers fu concesso il diritto su tutta la stampa in
Inghilterra, sia per le vecchie opere che per le nuove, come premio per mantenere
un occhio stretto su ciò che veniva pubblicato. Il loro documento
di concessione diede loro non solo il diritto esclusivo di stampare, ma anche
il diritto di cercare e confiscare le stampe ed i libri non autorizzati e addirittura
di bruciare i libri stampati illegalmente. Nessun libro poteva essere stampato
fino a che non era entrato nel Registro della corporazione e nessun’opera
poteva essere aggiunta al registro finché non aveva passato il censore
della corona, o era stato auto - censurato dagli Stationers. La Company
of Stationers diventò, in effetti, la polizia privata, dedita al profitto,
del governo [1].
Il sistema era stato apertamente progettato proprio per servire i venditori
di libri ed il governo, non gli autori. I nuovi libri venivano immessi nel registro
della corporazione sotto il nome di un membro della corporazione, non sotto
il nome dell’autore. Per convenzione, il membro che aveva registrato il
libro manteneva il “copyright”, il diritto esclusivo di pubblicare
quel libro sugli altri membri della corporazione, e la Court of Assistants della
Corporazione risolveva le dispute su eventuali infrazioni [2].
Questa non fu semplicemente una nuova manifestazione di qualche forma di copyright
preesistente. Non è come se gli autori avessero avuto precedentemente
il copyright, che ora era stato tolto a loro e dato agli Stationers.
Il diritto degli Stationers era un nuovo diritto, per quanto fosse basato su
una lunga tradizione di concedere i monopoli alle corporazioni, in modo da usarle
come mezzo di controllo. Prima di questo momento il copyright – cioè
il generico diritto, tenuto privatamente, di proibire agli altri la copia –
non esisteva. La gente stampava normalmente, quando aveva la possibilità,
le opere che ammirava, un’attività che è responsabile della
sopravvivenza di molte di quelle opere fino al giorno d’oggi. Naturalmente
si potrebbe proibire la distribuzione di un documento specifico a causa del
suo potenziale effetto diffamatorio, o perché esso era una comunicazione
privata, o perché il governo lo considera pericoloso e sedizioso. Ma
queste sono ragioni di salute pubblica o danno alla reputazione, non di diritto
di proprietà. In alcuni casi c’erano stati anche privilegi particolari
(allora chiamati “patenti”) che consentivano la stampa esclusiva
di certi tipi di libri. Ma fino alla Company of Stationers non c’era stata
un’ingiunzione globale contro la stampa in generale, né una concezione
del copyright come una proprietà legale che potesse essere posseduta
da una parte privata.
Per circa un secolo e mezzo questa associazione funzionò bene per il
governo e per gli Stationers. Gli Stationers trassero profitto dal loro monopolio
e il governo esercitò il controllo sulla diffusione delle informazioni
tramite gli Stationers. Tuttavia, verso la fine del diciassettesimo secolo,
a causa di maggiori cambiamenti politici, il governo allentò le sue politiche
censorie e fece terminare il monopolio degli Stationers. Ciò significava
che la stampa sarebbe dovuta ritornare al proprio stato anarchico precedente
e naturalmente fu una minaccia economica ai membri della corporazione, abituati
come erano ad avere la licenza esclusiva di produrre libri. La dissoluzione
del monopolio avrebbe potuto essere buona per autori a lungo soppressi e stampatori
indipendenti, ma essa suonava come un disastro per gli Stationers, ed essi rapidamente
elaborarono una strategia per mantenere la loro posizione nel nuovo clima politico
liberale.
Gli Stationers basarono la loro strategia su un riconoscimento decisivo, che
è rimasto da allora alle aziende editoriali fino a oggi: gli autori non
hanno i mezzi per distribuire le proprie opere. Scrivere un libro richiede solo
penna, carta e tempo. Ma la distribuzione di un libro richiede presse per la
stampa, reti di trasporto ed investimenti iniziali in materiali e macchine compositrici.
Così, ragionarono gli Stationers, le persone che scrivono avranno sempre
bisogno della collaborazione di un editore per rendere il loro lavoro disponibile
alla generalità. La loro strategia usò questo fatto fino al massimo
vantaggio. Essi andarono in Parlamento e fornirono l’argomento, basato
sulla storiella-di-allora, che gli autori avevano un inerente diritto di proprietà
naturale su ciò che scrivevano e che inoltre questa proprietà
poteva essere trasferita ad altre parti per contratto, come ogni altra forma
di proprietà.
Il loro argomento riuscì a convincere il Parlamento. Gli Stationers avevano
fatto in modo da evitare l’odio verso la censura, poiché i nuovi
diritti di riproduzione avrebbero avuto origine dall’autore, ma essi sapevano
che gli autori avrebbero avuto ben poche possibilità di scelta oltre
che firmare per trasferire questi diritti ad un editore per la pubblicazione.
Ci fu qualche disputa giudiziaria e politica sui dettagli, ma alla fine tutte
e due le metà dell’argomento degli Stationers sopravvissero essenzialmente
intatte e diventarono parte della statutory law inglese. Il primo copyright
riconoscibilmente moderno, lo Statute of Anne (Statuto di Anna) fu approvato
nel 1710.
Lo Statuto di Anna viene spesso richiamato dai campioni del copyright come il
momento in cui gli autori ricevettero finalmente la protezione che essi meritavano
da tempo. Ancora oggi esso viene referenziato, sia in argomentazioni legali
che in stampati dell’industria editoriale. Ma interpretarlo come una vittoria
degli autori contrasta sia con il comune buon senso che con i fatti storici
[3]. Gli autori, che non avevano avuto il copyright, non vedevano
nessuna ragione di chiedere improvvisamente il potere piuttosto paradossale
di evitare la diffusione delle proprie opere, e non lo fecero. Le sole persone
preoccupate della dissoluzione del monopolio degli Stationers erano gli Stationer
stessi, e lo Statuto di Anna fu il diretto risultato della loro campagna di
lobbying.
Nelle memorabili parole del contemporaneo Lord Camden, gli Stationers “…vennero
in Parlamento come supplicanti, con le lacrime agli occhi, infelici e sfiduciati;
essi portarono con sé mogli e bambini per provocare compassione e indurre
il Parlamento a garantire loro una sicurezza legale.” [4]
Per rendere più appetibili i loro argomenti, essi avevano proposto che
il copyright fosse originato dall’autore, come una forma di proprietà
che poteva essere venduta a chiunque – aspettandosi correttamente che
il diritto sarebbe stato venduto quasi sempre ad un editore.
Questa proposta fu un’astuta mossa tattica, perché il Parlamento
voleva impedire il ristabilimento di un monopolio centralizzato nel commercio
dei libri, con la sua potenzialità di un ripristino della censura da
parte della Corona. Benjamin Kaplan, professore di legge emerito all'università
di Harvard e rispettato studioso del copyright, descrive brevemente la posizione
degli Stationers:
... gli Stationers fecero il caso che essi non potessero produrre quei fragili
prodotti detti libri e così incoraggiare gli uomini istruiti a scriverli,
senza una protezione contro la pirateria... C’è un apparente tracciato
dei diritti verso una fonte ultima nel fatto della proprietà intellettuale,
ma prima di dare a ciò grande importanza dobbiamo osservare che, se la
stampa come commercio non fosse messa nuovamente nelle mani di pochi monopolisti,
-- se lo statuto venisse ad essere effettivamente una specie di “patente
universale” -- un legislatore sarebbe condotto naturalmente esprimersi
in termini di diritti nei libri e quindi di diritti iniziali negli autori. Un
legislatore sarebbe comunque consapevole che i diritti di solito passerebbero
immediatamente agli editori per assegnazione, cioè dall'acquisto dei
manoscritti come nel passato... Penso sia più vicino alla verità
dire che gli editori videro il vantaggio tattico di proporre gli interessi degli
autori insieme ai propri e questa tattica produsse un certo effetto sul tono
dello statuto.[5]
Lo statuto di Anne, preso nel contesto storico, è la pistola fumante
della legge sul copyright. In esso possiamo vedere l'intero apparato del copyright
moderno, ma ancora in forma indistinta. C’è la nozione del copyright
come proprietà, come pure la proprietà intesa realmente per gli
editori, non per gli autori. C’è la nozione della società
che ne beneficia, incoraggiando la gente a scrivere i libri, ma nessuna evidenza
viene offerta per mostrare che la gente non scriverebbe libri in assenza copyright.
La discussione degli Stationers fu piuttosto che gli editori non potrebbero
permettersi di stampare libri senza una protezione dalla concorrenza e che gli
autori produrrebbero poche opere nuove senza un’aspettativa di distribuzione.
Questo [argomento] non era del tutto in malafede; le corti ed il Parlamento
non sarebbero stati così favorevoli se effettivamente fosse stato del
tutto incoerente. Gli editori furono ora efficacemente costretti a pagare gli
autori in cambio dei diritti esclusivi di stampa (sebbene in effetti gli Stationers
a volte avessero pagato gli autori anche prima, semplicemente per garantirsi
il completamento e la consegna di un’opera). Gli autori che riuscirono
a vendere questo nuovo diritto agli stampatori non ebbero particolari motivi
di lamentarsi -- e naturalmente, non si sente parlare molto degli autori sfavoriti.
Il consolidamento del copyright dell'autore probabilmente contribuì al
declino del patronato come fonte di reddito per gli scrittori [6] e ad alcuni
autori consentì perfino, benché sempre una piccola minoranza,
di sostenersi solamente dai diritti d'autore che i loro editori dividevano con
loro.
Ma la testimonianza storica globale è chiara: il copyright fu
progettato dai distributori per sovvenzionare se stessi, non i creatori.
Questo è il segreto che l’odierna lobby del copyright non ha mai
il coraggio di dire ad alta voce, perché una volta che venisse ammesso,
diventerebbe chiaro in modo imbarazzante il vero scopo della successiva legislazione
sul copyright. Lo statuto di Anne fu semplicemente l'inizio.
Assegnando la premessa che il copyright debba esistere, il governo inglese si
trovò sotto pressione per estendere sempre di più i termini del
copyright. Nella lunga saga legale che seguì, non è importante
la particolare sequenza di leggi e verdetti, ma l'identità dei querelanti:
essi erano proprio il tipo di interesse affaristico stabile e consolidato, capace
di sostenere la controversia e di fare pressioni per decenni — erano cioè
editori, non autori. Avevano proposto il copyright dell'autore per interesse
economico e solo dopo che la stampella di un monopolio basato sulla censura
era stato tolto a loro. Quando fu evidente che la tattica funzionava, essi spinsero
per rinforzare il copyright.
Il modello è questo ancora oggi. Ogni volta che il congresso
degli USA estende i termini o la portata del copyright, ciò è
il risultato di pressioni dell'industria editoriale. A volte, i gruppi
di pressione metteranno in mostra un autore o un musicista superstar, una faccia
umana per quello che è essenzialmente uno sforzo dell’industria,
ma è sempre molto chiaro cosa sta accadendo in realtà. Tutto ciò
che dovete fare è guardare chi sta pagando le fatture degli avvocati
e dei gruppi di pressione, il cui nome compare nei registri delle sentenze della
corte — gli editori.
Tuttavia la campagna secolare dell'industria per una forte legge sul copyright
non è semplicemente avidità riflessa. È una naturale risposta
economica alle circostanze tecnologiche. L'effetto del torchio tipografico e
successivamente della tecnologia di registrazione analogica del suono, avrebbe
reso le opere dell’ingegno inseparabili dai mezzi per la loro distribuzione.
Gli autori avevano bisogno degli editori come l'elettricità ha bisogno
dei fili. L'unico metodo economicamente praticabile per raggiungere i lettori
(o gli ascoltatori) era la stampa di massa: produrre insieme migliaia di copie
identiche, poi spedirle fisicamente ai vari punti di distribuzione. Naturalmente
ogni editore, prima di accettare un tale investimento, preferisce comprare o
prendere in leasing il copyright dall'autore, proprio come naturalmente incita
il governo ad estensioni più forti possibili del copyright, il meglio
per proteggere il suo investimento.
In questo non c’è niente di intrinsecamente strumentale; è
pura economia. Dal punto di vista degli affari, il funzionamento della stampa
è un progetto rischioso e scoraggiante. Comporta alti costi iniziali
del supporto fisico (sia esso la polpa dell'albero, nastro magnetico, dischi
in vinile, o dischi ottici incisi), oltre a macchinari complessi e costosi per
stampare il contenuto sul supporto. Inoltre c’è l'investimento
occulto del controllo della copia matrice: poiché un master difettoso
può ridurre il valore di tutto il lavoro, gli editori e gli autori incontrano
considerevole difficoltà per generare una versione del lavoro pulita
e priva di errori prima della stampa. Qui c’è poco spazio per un
processo incrementale o evolutivo; il lavoro deve essere reso quasi perfetto
prima che il pubblico possa vederlo. Se degli errori sono trascurati, dovranno
essere tollerati nel prodotto finito, almeno fino al riavvio del processo per
la ristampa successiva. L'editore deve anche negoziare i prezzi ed allineare
i percorsi di distribuzione, che è non soltanto un problema di contabilità,
ma di spese fisiche, di camion e treni e contenitori per trasporto. Infine,
come se tutto questo non fosse abbastanza, l'editore è costretto a spendere
ulteriore denaro per il marketing e la pubblicità, per avere una migliore
possibilità di recuperare almeno tutte le spese.
Quando ci si rende conto che tutto questo deve accadere prima che l'opera generi
un penny di reddito, è poco sorprendente che gli editori sostengano fortemente
il copyright. In termini economici, l'investimento iniziale degli editori in
ogni opera individuale - cioè il loro rischio - è più grande
di quello dell'autore. Gli autori in sé non avrebbero desiderio intrinseco
di controllare la copiatura, ma gli editori lo hanno. Naturalmente gli autori
hanno tanto più bisogno degli editori in un mondo si è riempito
di reparti di marketing sostenuti dalle royalty degli editori. La concentrazione
dei redditi di distribuzione provoca inevitabilmente la logica familiare di
una corsa agli armamenti.
L’arrivo di Internet ha profondamente cambiato questa equazione. Ormai
é divenuto un cliché affermare, come in realtà è,
che Internet ha portato uno sviluppo rivoluzionario così come lo è
stato l’arrivo della stampa. Ma internet è rivoluzionaria in modo
diverso. La stampa rese possibile la produzione di molteplici copie a partire
da un libro, ma tali copie dovevano essere ancora fisicamente trasportate dalla
tipografia alle mani dei lettori. Dal punto di vista fisico, il libro non era
solo il modo con il quale accedere al suo contenuto, ma costituiva anche il
mezzo per recapitare il suo contenuto ai consumatori. Le spese totali sostenute
degli editori erano quindi praticamente proporzionali al numero di copie distribuite.
In tale situazione è ragionevole chiedere che ciascun consumatore contribuisca
ad una parte dei costi di distribuzione, tenuto conto che dopo tutto ciascun
utente è più o meno responsabile dei costi che hanno fatto pervenire
il libro nelle sue mani. Se il libro (o il disco) è nelle sue mani, deve
averlo preso da qualche parte e qualcuno deve aver speso dei soldi per farlo
arrivare li. Dividete queste spese per il numero di copie, aggiungete un certo
margine di profitto e arrivate in linea di massima al prezzo del libro.
Oggi, però, il mezzo su cui vengono distribuiti i contenuti può
essere del tutto diverso da quello utilizzato al momento della fruizione ultima
del contenuto. I dati possono essere trasmessi su cavo a costo essenzialmente
zero e l’utente, che si trova dall’altra parte del cavo, può
stampare la copia di un’opera a proprie spese e con la qualità
che può permettersi [7]. Ne consegue che la pratica di applicare un ricarico
fisso su ogni copia, indipendentemente dal numero di copie distribuite, ha poco
senso, in quanto il costo di produzione e distribuzione di un lavoro è
essenzialmente fisso e non più collegato al numero di copie. Dal punto
di vista della società, ogni dollaro in più speso oltre a quelli
necessari (se ce ne sono) per far emergere un lavoro è in primo luogo
uno spreco e costituisce un impedimento alla capacità del lavoro di diffondersi
in base ai propri meriti.
Internet ha fatto qualcosa che la compagnia degli Stationers non aveva previsto:
ha reso gli argomenti della loro discussione un'ipotesi verificabile. Gli autori
continuerebbero a creare, senza una struttura centralizzata che distribuisca
le loro opere? Una conoscenza anche minima di Internet è sufficiente
per fornire la risposta: ovviamente si, lo stanno già facendo. Gli utenti
dei computer scaricano comodamente musica e realizzano CD a casa e, lentamente
ma inevitabilmente, i musicisti immettono comodamente in rete nuovi brani “free”
pronti per essere scaricati [8]. Anche alcuni lavori brevi come romanzi e non
solo sono disponibili on-line.
Sebbene sia vero che la stampa e la rilegatura su richiesta di interi libri
siano ancora rare, questo avviene solo perché le macchine necessarie
sono ancora abbastanza costose. Comunque le apparecchiature diventano sempre
più economiche ed è solo una questione di tempo prima che la copisteria
sotto casa le abbia a disposizione. Da un punto di vista della distribuzione
non vi è differenza tra testo e musica e appena la tecnologia per la
stampa e la rilegatura diverrà più economica, gli autori di libri
vedranno molto più chiaramente che essi hanno le stesse alternative di
cui dispongono nell’immediato i musicisti, e il risultato sarà
lo stesso: sempre più materiale disponibile senza restrizioni, a partire
dalla scelta dell’autore.
Alcuni possono argomentare che gli autori sono differenti e che essi sono molto
più dipendenti dal copyright di quanto lo siano i musicisti. Dopo tutto
un musicista fa dei concerti e può quindi guadagnare indirettamente da
una distribuzione libera dei propri brani – la maggiore diffusione delle
proprie canzoni permette di effettuare maggiori concerti. Gli autori però
non fanno rappresentazioni; raggiungono il loro pubblico attraverso le opere
e non di persona. Se ora volessero trovare dei modi per auto-finanziarsi senza
imporre una scarsità di risorse ai loro lavori, potrebbero farlo?
Immaginate lo scenario più semplice: entrate nella libreria di quartiere
e fornite ad un impiegato l’indirizzo web del libro che state cercando.
Un paio di minuti dopo, l’impiegato ritorna con una copia fresca del libro
scaricata da internet, appena stampata e rilegata, ed annuncia il prezzo:
“Sono otto dollari. Vuole aggiungere la donazione di un dollaro per l’autore?”
Accettate? Ovviamente potete dire si o dire no, ma si deve notare che quando
i musei propongono una donazione volontaria la gente di solito paga. Una cosa
del tutto simile potrebbe quindi accadere nella libreria. Molte persone sono
contente di pagare un piccolo extra su una spesa abbastanza grande se hanno
tirato fuori il portafogli e pensano che sia per una buona causa. Quando le
persone rinunciano a fare una piccola donazione volontaria per una causa in
cui credono, è più spesso a causa di inconvenienti (scrivere un
assegno, spedirlo, ecc) che a causa dei soldi. Ma se anche solo la metà,
o meno, di tutti i lettori facesse tale donazione, gli autori guadagnerebbero
tranquillamente più di quanto guadagnano con il sistema tradizionale
delle royalty ed avrebbero inoltre il piacere di divenire finalmente gli alleati
dei lettori e non i loro nemici.
Ovviamente questo non è il solo sistema possibile, anzi può facilmente
coesistere con altri sistemi. Quelli che non sono convinti dal meccanismo della
donazione volontaria, dovrebbero considerare un altro metodo: il sistema di
soglia di garanzia. Questo sistema è stato ideato per risolvere il problema
classico dei fondi distribuiti, in cui ogni contribuente vuole essere rassicurato
del fatto che tutti i partecipanti al fondo stiano contribuendo, prima di versare
i propri soldi. Con il sistema di soglia di garanzia, il promettente autore
di una nuova opera comunica in anticipo quanti soldi saranno necessari per la
realizzazione dell’opera; questi soldi costituiscono la “soglia”.
Un’organizzazione intermediaria, quindi, raccoglie le garanzie con diversi
importi, dal grande pubblico. Quando il totale delle garanzie raggiunge la “soglia”
(o eccede rispetto alla “soglia” di una qualche percentuale prefissata
per tenere la contabilità e per l’assunzione di rischio), l’intermediario
stipula con l’autore un contratto in cui vengono inserite le garanzie
raccolte. Solo in questo fase, quando ci sono i soldi per raggiungere lo scopo
desiderato, a ciascuno viene chiesto il pagamento della quota di garanzia. L’intermediario
tiene impegnati i soldi, pagando l’autore secondo una scaletta con esso
stabilita nella fase di negoziazione del contratto. Il resto dei soldi verrà
pagato quando il lavoro sarà completato e reso pubblicamente disponibile
non solo ai contribuenti del fondo ma in generale a chiunque. Se l’autore
non conclude il lavoro, l’intermediario restituisce i soldi ai contribuenti
del fondo.
Il sistema di soglia garantita possiede alcune caratteristiche interessanti,
non riscontrabili nel mercato monopolistico basato sul copyright. Il lavoro
di un autore risulta disponibile gratuitamente a chiunque in tutto il mondo.
E ancora, l’autore è stato pagato abbastanza per produrre il lavoro:
se avesse avuto bisogno di più soldi avrebbe potuto chiederli e restare
a vedere se il mercato era disposto a finanziarlo. Quelli che hanno scelto di
aderire al fondo, hanno pagato ciò che hanno ritenuto accettabile e niente
di più. E infine, non c’erano rischi per i contribuenti in quanto
se la “soglia” non fosse stata mai raggiunta nessuno avrebbe pagato
alcunché.
Naturalmente non tutti i metodi sono così piacevolmente ispirati da nobili
sentimenti. Un paio di anni fa la famosa e affermata autrice Fay Weldon accettò
soldi da Bulgari per scrivere un romanzo in cui venivano descritti e messi in
evidenza i prodotti di Bulgari. Il libro fu intitolato “The Bulgari Connection”
ed era originariamente pensato per una edizione limitata distribuita per una
funzione corporativa, ma la Weldon avendo scritto il romanzo, pensò bene
di consegnare il romanzo al suo editore per una distribuzione generale. Questo
significa che in futuro dovremo esaminare tutte le opere creative per individuare
sponsorizzazioni nascoste di eventuali corporazioni? Forse, ma non ci sarebbe
niente di nuovo – la messa a disposizione di un prodotto è stata
inventata nel tradizionale contesto del copyright ed è li che è
fiorita. Il copyright non è né la causa della sponsorizzazione
corporativa né il suo antidoto. Sarebbe sorprendentemente fuori luogo
il guardare all’industria editoriale come una forza per la de-commercializzazione.
Questi sono alcuni esempi su come sostenere il lavoro creativo senza il copyright.
Ci sono molti altri metodi [9]; ce n’erano molti anche prima che Internet
rendesse possibile il pagamento e l’acquisto diretto on-line. Non importa
se un dato artista usa questo o quel metodo. La cosa importante è che
con poca o nessuna difficoltà che impedisca il pagamento di piccole somme,
gli autori trovino il modo per far si che tali pagamenti possano avvenire sulla
base delle loro esigenze. Gli economisti amanti del mercato come la soluzione
a qualunque cosa, dovrebbero innamorarsi di queste possibilità (ma, prevedibilmente,
molti di essi non lo sono, poiché odiano vedere qualcosa diventare privo
di proprietà).
Copiare non è furto e non è pirateria. E’ ciò
che abbiamo fatto per millenni, fino all’invenzione del copyright, e possiamo
farlo di nuovo, se non ci intralciamo da soli con gli antiquati residui di un
sistema di censura del sedicesimo secolo.
Il contenuto di questo articolo viene rilasciato sotto copyright libero e può
essere ridistribuito, citato e modificato senza restrizioni. Se si distribuisce
una versione modificata, si prega di correggere le attribuzioni di conseguenza.
Note
[1] Questi eventi si possono leggere in ogni storia
del copyright. Una buona risorsa on-line sulle conseguenti implicazioni legali
è "Copyright And `The Exclusive Right' Of Authors" (Il copyright
e il “Diritto Esclusivo” degli autori) http://www.lawsch.uga.edu/jipl/old/vol1/patterson.html
Journal of Intellectual Property, Vol. 1, No.1, Fall 1993, del professor Lyman
Ray Patterson, Pope Brock Professor di Legge all’Università di
Georgia, un noto studioso della proprietà intellettuale. La sua descrizione
delle origini del copyright è concisa e rivelatrice:
Nella storia anglo americana del copyright l’evento che causò gli
eventi formanti del diciassettesimo e diciottesimo secolo fu la Charter of the
Stationers' Company (Carta della Corporazione dei Librai) concessa nel 1556
da Filippo e Maria …. La Carta diede agli Stationers il potere di fare
“ordinanze, condizioni e leggi” per la gestione della “arte
o mistero della scrittura”, come pure il potere di cercare stamperie e
libri illegali ed oggetti, insieme al potere di “requisire, prendere o
bruciare i predetti libri e oggetti, e qualsiasi di essi stampato o da stampare
in contrasto con la forma di ogni statuto, atto o proclamazione …”
Il potere di bruciare i libri offensivi fu un beneficio per il sovrano (un’arma
contro le pubblicazioni illegali) ed un vantaggio per gli stationers (un’arma
contro la concorrenza). La possibilità di bruciare i libri mostra così
la motivazione reale della Carta, assicurare la fedeltà al sovrano degli
stationers come poliziotti della stampa in un mondo incerto.
[2] "An Unhurried View of Copyright" (Una
visione serena del copyright), Benjamin Kaplan Columbia University Press, 1967,
pp. 4-5.
[3] Patterson, in [1], giunge al punto da dichiarare
“La caratterizzazione del copyright, così come definito nello statuto,
come una protezione dei diritti dell’autore è una delle più
grandi bufale della storia.”
[4] Kaplan, p. 6.
[5] Kaplan, pp. 7-9.
[6] "Five Hundred Years of Printing" pp. 218-230, S. H. Steinberg,
Penguin Books, 1955, revised 1961
[7] Quando cominciai questo articolo, assunsi che ci volessero alcuni anni per
la realizzazione commerciale tali sviluppi, ma avevo torto: il servizio di stampa
su richiesta newspaperkiosk.com già esiste ed è funzionante.
[8] Vedi ad esempio www.mp3.com. (Sebbene molte delle offerte sul sito siano
nominalmente soggette a copyright, è più che altro un riflesso
legale. Le tracce si intendono liberamente scaricabili, ascoltabili e condivisibili
– e questo è esattamente ciò che fa la gente.)
[9] Per la descrizione di una tecnica di realizzazione ed una rassegna delle
altre, vedi "The Street Performer Protocol and Digital Copyrights"
di John Kelsey e Bruce Schneier, all’indirizzo http://www.firstmonday.dk/issues/issue4_6/kelsey/.
[10] Patterson; vedi [1].